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I Ds di Libertà eguale


 
Salvare i DS, consolidare l'Ulivo e costruire un nuovo, unitario partito del riformismo socialista.

Preambolo e sintesi.

Il prossimo congresso dei DS, e comunque le scelte che i DS faranno entro il prossimo anno, sono decisivi; nel senso che è decisivo il momento che vivono i DS e - con loro - la sinistra e l'Ulivo. Molte cose sono in gioco: l'efficacia dell'opposizione in questa legislatura e la possibilità di vincere nella prossima sfida per il governo; la convergenza e la visibilità delle forze riformiste provenienti dalla tradizione socialista e la consistenza del loro contributo all'unione di tutti i riformisti, alla casa comune dei riformisti; la stabilità, la solidità e la coesione dell'Ulivo, alleanza per il governo, soggetto politico interprete della "vocazione maggioritaria" indispensabile per competere in un sistema bipolare e necessaria alla stessa sinistra per essere "sinistra di governo".
Il prossimo congresso, le scelte dei DS avranno conseguenze su tutti questi piani, non perché i DS stessi debbano essere guida dell'Ulivo o debbano "assorbire" le altre forze del riformismo socialista. Ma nei DS si raccoglie una parte molto consistente delle forze provenienti dal movimento operaio e socialista ancora attive sulla scena politica italiana. Una loro crisi radicale e definitiva avrebbe dunque effetti pessimi tanto per queste forze quanto per l'Ulivo. Oggi questo pericolo non è inesistente. Bisogna individuarlo, analizzarlo e dissolverlo. Noi condividiamo con tutti gli iscritti ai DS e con tutti coloro che partecipano all'Ulivo questa preoccupazione e sentiamo vivissimo questo impegno. Non condividiamo, e consideriamo anzi un grave errore l'idea che per salvare i DS si debba far blocco senza andare troppo per il sottile, si debbano mettere al bando discussioni e confronti aperti di posizioni, non si debbano "disturbare" gli iscritti ai quali si dovrebbe offrire soltanto immagine di compattezza e certezza di comando. Noi pensiamo che, in tal modo, si otterrebbe soltanto di aggravare la crisi fino al punto da renderla definitiva. La sorte dei DS non dipende dalla capacità di cementare le loro forze attuali, dalla perentorietà con la quale affermano la loro autosufficienza, ma dalla capacità di aprirsi e di comprendere la importanza del rapporto con gli altri riformisti, socialisti e non.
Noi pensiamo che le risorse da attivare, alle quali affidarsi, siano la formulazione chiara delle possibili proposte, la loro discussione approfondita e priva di chiusure, la partecipazione più ampia e consapevole degli iscritti e la loro assunzione di responsabilità nell'indicare la scelta che considerano più convincente ed efficace. Una delle ragioni per cui i DS si trovano oggi in una situazione di seria difficoltà è esattamente l'asfissia della vita democratica e la passività alla quale sono stati indotti gli aderenti in nome dell'onnipotenza del vertice. Le odierne grida e proteste di alcuni dirigenti locali in nome del loro "amore" per l'unità del partito non fanno altro che sottolineare la loro responsabilità per il silenzio e l'acquiescenza di ieri.
Perché siamo arrivati al punto che appare in forse la sorte stessa dei DS? Noi pensiamo che la causa non unica ma di gran lunga più importante sia il ritardo, fino al blocco, del processo di rinnovamento, l'illusione - promossa dal vertice stesso del partito - che il rinnovamento si potesse considerare concluso e che il mantenerlo aperto risultasse addirittura dannoso. Non ci riferiamo in questo caso alla capacità di cogliere le novità nella realtà sociale, di collegarsi ad esse, di innovare in conseguenza le politiche di riforma. Anche questo è un problema. Ma a noi sembra ben più decisivo il mancato compimento dell'innovazione nella cultura, nell'organizzazione, nel modo di far vivere e dirigere il partito. E' una condizione preliminare: molte volte abbiamo verificato che novità programmatiche, pur elaborate e proposte, sono cadute o sono state accantonate perché in contrasto con modi consuetudinari di pensare e di comportarsi, presenti nel partito e ancora non superati.
Nonostante tutto, malgrado i ripetuti richiami alla "socialdemocrazia" e anche ad auspicate "rivoluzioni liberali" nei DS la sinistra viene ancora identificata con il modello (certamente poderoso e comprensibilmente presente) rappresentato per mezzo secolo dal PCI: con il suo fondamento classista e la sua ispirazione marxista, con la sua cultura politica tanto improntata dalla "responsabilità" democratica e nazionale quanto orgogliosa della propria diversità, tipica di una forza che sacrificava la possibilità di promuovere un'alternativa di governo al vagheggiamento di un'alternativa di sistema mai del tutto tramontato, con i suoi moduli organizzativi e di direzione, questi sì di stampo comunista, basati su una concezione "organica" del partito e sul centralismo democratico; regola, prima ancora che della "disciplina", della direzione e del governo del partito, affidati per definizione ad un "centro" addetto alla sintesi e all'unificazione delle tendenze di "destra" e di "sinistra", necessariamente "parziali", quando non "devianti". A dieci anni di distanza si deve dichiarare che l'occasione di rinnovamento offerta con la "svolta della Bolognina" non è stata interamente colta, non ha prodotto tutti gli effetti necessari, vuoi per le debolezze e le parzialità in essa presenti, vuoi per la fretta restauratrice degli anni successivi.
Il ritardo nella necessaria innovazione della sinistra è stato accentuato da quanto è avvenuto, o non è avvenuto, fuori e intorno ai DS. Gli altri raggruppamenti della sinistra hanno anch'essi vissuto un periodo di travaglio e difficoltà, e non hanno superato i limiti imposti comunque dalla loro piccola dimensione. Il collasso del PSI e la diaspora socialista che ne è conseguita non sono stati contraddetti da significativi processi di riaggregazione, nonostante l'impegno generoso e la parabola apprezzabile dello SDI. Il retroterra delle grandi organizzazioni sindacali, pur investito dai processi politici scaturiti dalla fine del vecchio sistema dei partiti, ha mirato soprattutto a tenersene al riparo, come fosse possibile un mutamento generale degli strumenti, degli istituti e delle forme della politica, del rapporto fra cittadini e politica senza che i sindacati stessi fossero chiamati alla prova di un loro cambiamento. Cosicché non ha fatto passi avanti l'unità sindacale e le divisioni fra le organizzazioni si sono anzi appesantite e irrigidite in una logica di "apparati". Il sindacato nel suo insieme appare bloccato entro le logiche gloriose, ma se non superate, certamente parziali dell'industrialismo; capace di collegarsi solo con i settori del mondo del lavoro stabilizzati e delle imprese medio-grandi, tradizionalmente rappresentati. Nelle zone del mercato del lavoro più dinamiche e precarie, frequentate dai giovani, ne deriva un'immagine conservatrice del sindacato, che conferma e sottolinea un'analoga immagine che investe l'intera sinistra.
L'incompiuto rinnovamento segna il modo di pensare, la cultura ancora prevalente nei DS; anche nell'analisi e nel rapporto con la società, con le sue trasformazioni, con le sue novità, gli strumenti disponibili continuano ad essere quelli di sempre. Ci si affida ad un'ottica lavoristica, alla cosiddetta "centralità" o "funzione sociale" del lavoro, come se lì ci fosse l'alfa e l'omega dell'ancoraggio sociale, il punto di appoggio della leva che consente la "critica generale" della società e delle diverse "condizioni sociali" che in essa si ritrovano. Insomma, ancora l'eco, per quanto negata, di un'idea "di classe" della sinistra. Resta ferma l'idea che sia ancora strutturalmente decisivo per la caratterizzazione della società, per la determinazione della condizione sociale il momento della produzione di beni. Noi pensiamo che la condizione sociale oggi non viene afferrata se ci si limita ai problemi della persona lavoratrice. Le persone sentono che la loro vita, la qualità che assume dipendono altrettanto da altre sfere che hanno acquistato e acquistano peso crescente: le gerarchie e le scelte del consumo; l'organizzazione e le finalità del tempo libero, cioè di non lavoro; l'accesso alle informazioni e alle conoscenze, decisivo non solo per le attività lavorative, ma in tutti gli aspetti del vivere, in tutte le relazioni fra le persone, per padroneggiarli, per non doverli subire in modo subalterno. Le persone cercano una sinistra capace di misurarsi su tutto l'arco di questi problemi, di fornire obiettivi e soluzioni su tutti gli aspetti della loro condizione sociale, di predisporre le occasioni e gli strumenti per una azione politica che afferri tutto questo orizzonte. A questo fine gli strumenti tradizionali di una "sinistra di classe" non sono sufficienti; non consentono di afferrare e mettere a fuoco i problemi, non consentono di elaborare soluzioni efficaci. Su questo punto pensiamo esattamente l'opposto di quanto sostengono altri nei DS. Una sinistra che si affidi alla sua ottica tradizionale, "classista" e "lavorista", non accentua oggi la sua capacità critica nei confronti della società, né rende più robusto il suo riformismo; produce invece una critica e un riformismo deboli. La forza stessa del riformismo dipende dalla apertura ad altre tradizioni, ad altre culture. Esse forniscono elementi indispensabili non solo per il fondamento delle libertà ma anche per comprendere tanti problemi delle persone, per intervenire su aspetti essenziali della loro vita, per aiutarle a migliorarli. Per questo consideriamo essenziale l'assunzione dei principi e degli strumenti del liberalismo ai fini della comprensione e della critica della odierna condizione sociale. E consideriamo importantissimo l'apporto delle culture personalistiche e comunitarie di ispirazione religiosa; esse consentono di trarre dalle relazioni e dalle comunità in cui ciascuno è concretamente immerso - a cominciare dalla famiglia - risorse decisive per migliorare la vita delle persone e il livello della civiltà sociale. Così è possibile pensare e attuare un riformismo davvero incisivo ed efficace.
Anche noi vogliamo salvare, cioè dare saldezza, fiducia e prospettiva alle forze che sono oggi nei DS, in particolare a quelle che, provenendo dal PCI, attraverso la svolta di dieci anni fa, hanno voluto approdare alle sponda della sinistra di governo e collocarsi nella dimensione del riformismo socialdemocratico. Siamo convinti che, per farlo, è assolutamente necessario che queste forze, con il loro prossimo congresso, decidano di coinvolgersi pienamente in due processi politici distinti ma non separabili uno dall'altro, perché uno è condizione dell'altro. I DS devono unirsi alle altre forze del riformismo di derivazione socialista, compiendo un atto esplicito che affermi - con una nuova discontinuità - la pari dignità delle forze che non provengono dal PCI. Questo atto consiste, a nostro avviso, nel proporre e sostenere la leadership di Giuliano Amato per la più larga unione che auspichiamo. Il processo volto a questa più larga unione deve essere contemporaneo e contestuale a quello di consolidamento dell'Ulivo, di strutturazione democratica e organizzativa, di definizione delle procedure e delle istanze comuni dell'alleanza per il governo. L'Ulivo è il soggetto politico portatore della "vocazione maggioritaria" della capacità di competere per il governo; è la dimensione indispensabile che consente di essere forze di governo a tutte quelle che ne fanno parte. Questa è la strada che noi indichiamo per "salvare i DS", per dare a tutti noi che ne facciamo parte convinzione e slancio, necessari non solo a noi, ma alla forza dell'opposizione oggi, alle possibilità di vittoria dell'Ulivo in un domani vicino. Vogliamo con tutte le nostre forze "salvare i DS" perché vogliamo una sinistra nuova, incisiva e vincente al servizio dell'Italia che amiamo. Pensiamo, e lo diciamo senza reticenza o doppiezza, che i DS si salvano se non pretendono, se non si illudono di poterlo fare da soli, se evitano il pericolo mortale dell'autosufficienza. I DS sono indispensabili per la vitalità e la forza degli altri con i quali ci uniamo. Gli altri sono indispensabili a noi per vivere la politica come grande impegno nazionale e internazionale e non come testimonianza minoritaria e triste.

1. Consolidare e strutturare l'Ulivo, Federazione di partiti, associazioni, movimenti, individui.
In Italia il soggetto portatore della "vocazione maggioritaria", il soggetto che aspira a governare e si oppone al centrodestra, è l'Ulivo. E' l'Ulivo lo strumento attraverso il quale i riformisti italiani possono costruire una credibile proposta di governo del cambiamento, fondata su di un nuovo equilibrio tra le esigenze della libertà e quelle della sicurezza, contrapponendosi al populismo individualista del centrodestra.
Per questo l'Ulivo va coltivato e fatto crescere, combattendo apertamente tutti quei particolarismi e quelle tentazioni egemoniche delle sue singole componenti che lo hanno indebolito e ne hanno minato la credibilità.
Se l'Ulivo ha potuto raccogliere il consenso di un così ampio numero di cittadini - molto al di là della somma dei consensi dei partiti che ne fanno parte - ciò è dovuto al fatto che esso "continua ad essere percepito come una sorta di 'organizzazione non governativa', non partitica, non burocratica, cui si può partecipare anche senza essere iscritti a niente. Questa idea dell'Ulivo deve contaminare e corrodere tutte le vecchie forme-partito".
E' l'Ulivo che conferisce funzione di governo ai singoli partiti che ne fanno parte: per questo, l'innovazione e la stessa aggregazione delle singole componenti della coalizione (la sinistra di ispirazione socialista, la Margherita) può essere perseguita con successo solo attraverso un'iniziativa contemporanea e contestuale a quella di consolidamento e strutturazione dell'Ulivo in una vera e propria Federazione di partiti, movimenti, associazioni, singoli cittadini.
Ciò vale per il progetto di costruzione di un nuovo, unitario partito del riformismo socialista, che sarà destinato al fallimento se si commetterà l'errore - almeno in parte compiuto con la Cosa 2 di Firenze - di concepirlo e perseguirlo in antitesi o anche soltanto in assoluta autonomia rispetto al processo di consolidamento e strutturazione dell'Ulivo. Così come vale per il tentativo in atto di trasformare la Margherita in un partito unitario: l'ambizione di trasformare una parte (la Margherita) nel tutto (il progetto dell'Ulivo) condurrebbe al fallimento l'una e l'altro e va dunque combattuta apertamente, non in nome di un'aspirazione egemonica uguale e contraria, ma in nome dell'interesse di quanti si affidano all'Ulivo come alternativa al centro destra.
Dentro questa logica si iscrive il nostro rifiuto della divisione del lavoro tra sinistra e centro - si legga oggi DS e Margherita - dentro l'Ulivo, sia sul piano sociale, sia sul piano politico. Sulla rappresentanza sociale basterà ribadire che il campo di forze sociali di cui nei principali paesi europei sono espressione e interpreti le grandi forze del socialismo democratico, è lo stesso che in Italia si riconosce nell'Ulivo. Quanto alla divisione del lavoro sul piano delle alleanze politiche - perché è chiaro che l'Ulivo deve essere capace di alleanze con altre forze politiche, come accade per i grandi partiti del PSE a vocazione maggioritaria - è evidente in quale aberrazione essa dovrebbe tradursi: la sinistra fa il suo mestiere e "porta" alla coalizione l'allenza con R.C.; la Margherita fa altrettanto e si occupa di Lista Di Pietro e Democrazia Europea. Risultato: o nessuna alleanza per l'Ulivo, o lo squilibrio del suo profilo politico-programmatico nell'una o nell'altra direzione. Se l'Ulivo è solido e strutturato come soggetto portatore della vocazione maggioritaria, allora può contrarre le alleanze politiche di cui ha bisogno per prevalere sul centrodestra. Se l'Ulivo è una debole coalizione di partiti, messa su qualche mese prima delle elezioni, può persino accadere quello che sta accadendo dopo il 13 maggio: che ciascuno chieda conto all'altro di alleanze e accordi non fatti, di cui nessuno sa darsi ragione.
In Europa, sono i grandi partiti socialisti (membri del PSE) a costituire l'asse dell'alternativa di governo al centrodestra: essi possono allearsi con altre formazioni politiche, ma forniscono e propongono agli elettori di centrosinistra la leadership per il governo e la sostanza della piattaforma programmatica. In Italia, solo la costruzione del soggetto politico Ulivo, può dar luogo ad una forza che svolga la stessa funzione politica che in Europa svolgono i grandi partiti del PSE. L'Ulivo va dunque consolidato e strutturato in una vera e propria Federazione dei diversi riformismi italiani, dotata di regole certe per la selezione democratica della leadership, delle candidature uninominali, e per la adozione dei programmi di governo.

Si propongono precise ed immediate scelte politiche:
a) La costruzione di una Federazione dei gruppi parlamentari dell'Ulivo, guidata alla Camera da F. Rutelli e al Senato da G. Amato; la riunione congiunta delle due Presidenze dei gruppi dovrebbe designare i responsabili dei 12 Dipartimenti corrispondenti ai 12 Ministeri della riforma Bassanini (Governo ombra); la Federazione dei gruppi dell'Ulivo deve realizzarsi in tutte le Regioni e le Autonomie locali. E' la Federazione dei Gruppi la sede per l'adozione di tutte le scelte più rilevanti nell'iniziativa di opposizione al governo di centro destra. Per questo, i Presidenti della Federazione dei Gruppi debbono essere delegati a svolgere le dichiarazioni di voto più impegnative (voto di fiducia al governo, voto sulle leggi di bilancio, su importanti e decisive scelte di politica europea ed internazionale, ecc.).
b) In ogni Collegio elettorale della Camera deve sorgere un Comitato dell'Ulivo, cui si possa aderire sia collettivamente - attraverso l'iscrizione ad uno dei partiti dell'Ulivo, ad un'associazione o movimento - sia individualmente. I Comitati di Collegio costituiscono - alla pari dei partiti della coalizione - le strutture di base per il processo di designazione e di delega dei componenti la Convenzione Nazionale dell'Ulivo, sede democratica per l'elaborazione e l'approvazione del programma e per la definizione delle strutture rappresentative.
c) Il Comitato Nazionale dell'Ulivo deve assumersi la responsabilità di elaborare - entro un anno - un regolamento per la tenuta di consultazioni elettorali primarie per la scelta del candidato Presidente del Consiglio, dei candidati Presidente di Regione, di Provincia e Sindaco e per la scelta dei candidati di collegio uninominale. La Federazione dei gruppi dell'Ulivo deve presentare una proposta di legge sulle consultazioni elettorali primarie ed insistere per la sua approvazione nella prima parte della legislatura, anche legando la tenuta delle primarie al finanziamento della campagna elettorale (volete i soldi per la campagna elettorale? Per averli, o averne di più, fate scegliere i candidati con le Primarie ai vostri elettori più attivi ed impegnati e perciò disposti ad iscriversi in un apposito elenco). La proposta delle Primarie è stata in passato respinta -un po' da tutti i partiti- sulla base della tesi dell'eccessivo squilibrio elettorale-organizzativo tra i DS e gli altri partiti dell'Ulivo: se si trattava di una obiezione "sincera", essa non può che considerarsi superata dall'esito del voto per la quota proporzionale della Camera dei Deputati. Dunque, i DS debbono ora premere perché tutto l'Ulivo prenda un preciso impegno di fronte ai suoi elettori: sì a Primarie regolate per legge; mai più candidati - a partire dal candidato premier - scelti come nelle ultime elezioni politiche. Tenere le elezioni primarie per la scelta tra Amato e Rutelli - come ha proposto, inascoltata, Libertàeguale nel settembre scorso - era l'unico modo per far rinascere subito quello "spirito del '96" che è tornato a manifestarsi solo negli ultimi due mesi di campagna elettorale. E, soprattutto, per affrontare e risolvere il problema della leadership dell'Ulivo non dal versante della appartenenza politica del candidato, ma dal versante dell'innovazione politico-istituzionale, facendo leva sulla risorsa della democrazia. Se il problema ha questo spessore, l'ottima prova del candidato Rutelli non ne modifica i termini essenziali. Del resto, solo partendo da questa innovazione politico-istituzionale si può offrire espressione democratica ad una tendenza - quella alla personalizzazione della politica - che ha già prodotto tanti effetti non solo nella vita dei partiti, ma nella costituzione materiale del Paese, ormai divenuto un Paese in cui la forma di governo parlamentare convive con la designazione diretta del premier da parte degli elettori.
E' ovvio che si tratta di scelte che non possono essere assunte da una singola componente dell'Ulivo. Ma i DS intendono finalmente determinarsi ad un'incalzante iniziativa per proporre la loro adozione da parte di tutto l'Ulivo? Non bastano generiche dichiarazioni di "disponibilità", magari seguite dalla tanto pronta quanto sospetta presa d'atto della "indisponibilità" di altri.
Non sarà neppure sufficiente che il Congresso Nazionale dei DS - a metà novembre - si pronunci favorevolmente su queste proposte di strutturazione dell'Ulivo, se prima di allora, i DS stessi non avranno prodotto fatti politici volti ad innescare questo processo di strutturazione dell'Ulivo, in una prospettiva federativa.
Ne va della forza e della credibilità dell'opposizione al governo Berlusconi. E' in gioco la possibilità stessa di preparare l'alternativa. Non può essere in alcun modo sottovalutato il fatto che, in questa prima fase della nuova legislatura, il centrosinistra non abbia saputo parlare con una sola voce - e si sia anzi clamorosamente spaccato - su questioni cruciali come il G8 di Genova e il relativo mandato parlamentare al Governo, sul recepimento della direttiva comunitaria sui contratti di lavoro a tempo determinato, sul giudizio circa la rottura dell'unità d'azione dei sindacati dei lavoratori dipendenti.
Nessuno pensa che le misure politico-organizzative per la strutturazione dell'Ulivo possano di per sé consentire il superamento delle difficoltà dell'Ulivo a maturare posizioni univoche su ogni tema dell'agenda politica, ma è certo che l'attuale, completa assenza di sedi comuni di analisi, elaborazione e decisione minaccia l'esistenza stessa dell'Ulivo.
E' dunque un'assenza cui va posto immediatamente rimedio.

1.1 Gli errori politici che ci hanno condotto alla sconfitta elettorale e all'attuale crisi.
Solo pochi anni fa, giusto all'indomani della costituzione del governo Prodi, il primato dei partiti e la concezione dell'Ulivo come semplice coalizione di partiti erano convinzioni chiaramente espresse dai segretari dei due partiti maggiori, D'Alema e Marini. D'Alema, in particolare, impostò una strategia che partiva da premesse esattamente antitetiche a quelle che abbiamo ora esposto: essere il Pds-Ds, gli eredi del comunismo italiano, e non l'Ulivo, il soggetto a vocazione maggioritaria, proprio come negli altri grandi paesi europei lo erano i partiti del movimento operaio e socialista. Non si trattava forse del partito nettamente più grande della coalizione? Non aveva forse, già nel passato e soprattutto dopo la svolta e l'inclusione nella famiglia dell'Internazionale Socialista, dato prove sufficienti di democrazia e di riformismo? Non era convenzione comunemente accettata in Europa che fossero i segretari del partito maggiore della coalizione vincitrice a svolgere il ruolo di primo ministro? Perché gli ex-comunisti dovevano ancora, e per quanto tempo, essere considerati i "figli di un Dio minore"? Di qui, alla caduta del governo Prodi - provocata dall'irresponsabile scelta di rottura di RC - la scelta di portare il leader dei DS alla guida del governo, senza quel passaggio elettorale che lo stesso D'Alema aveva tante volte dichiarato indispensabile. Di qui la forzatura politica sulle elezioni regionali del 2000, per superare quel deficit di legittimazione popolare: se queste fossero state un successo per il centro sinistra e i Ds, il Presidente del Consiglio sarebbe stato il candidato premier alle politiche del 2001. Se, in particolare i DS avessero vinto, il centro sinistra si sarebbe forse strutturato come una coalizione dominata da un partito e dal suo leader.
Ma i DS e il centrosinistra hanno perso sia le Regionali , sia le Politiche. Se ne deve dedurre che in Italia la sinistra - cioè un uomo o una donna di sinistra - non può e non potrà mai guidare un governo di alternativa ai conservatori ? No. Semplicemente, allora il Pds-Ds mostrò di ritenere concluso - o comunque di sottovalutare - un cammino (quello della costruzione di un partito del socialismo europeo in Italia non connotato come ex comunista e quello del consolidamento di un equilibrato e stabile soggetto di centrosinistra) che lo stesso Pds aveva in realtà rallentato e contraddetto.
Rallentato, con la mancata innovazione di cultura politica e piattaforma programmatica - una sorta di vera e propria rifondazione della socialdemocrazia - che era in atto nei partiti socialisti europei proprio quando il Pds aderì all'Internazionale Socialista.
Contraddetto, con le tesi di Gargonza sopra il rapporto tra partito e Ulivo.
D'Alema doveva essere il primo a sapere che -anche per il suo stile di conduzione del partito, per la sua riluttanza a metterne in gioco le certezze, per la continuità di un quadro dirigente che non aveva mai spezzato, per l'orgoglio del passato che aveva cavalcato e continuava a cavalcare per assicurarsi facilmente la leadership- il nostro non era un partito che gli italiani potevano percepire come completamente "nuovo" e esso stesso di "centrosinistra" (nel senso del new labour e della SPD). Un partito che, da solo, incorporasse la "vocazione maggioritaria" di un soggetto-guida dell'intera coalizione. E' un punto cruciale e vale la pena di ribadirlo. E' un punto che spiega perché insistiamo tanto sulla strutturazione dell'Ulivo e sul nuovo partito del riformismo socialista: sono queste le due scelte che assegnano alla sinistra un ruolo non subalterno, ma da protagonista, nella costruzione del futuro dell'Italia.

2. L'Ulivo, il Pse e il nuovo partito della sinistra.
L'Ulivo può affermare pienamente la propria funzione a condizione che tutte le sue componenti conoscano una profonda innovazione di cultura politica, di piattaforma programmatica e di struttura organizzativa. E' sbagliato affermare la "totale diversità" dei riformismi socialista, cattolico, azionista-liberaldemocratico, ambientalista e promuoverne la separazione organizzativa, la giustapposizione e la concorrenzialità, anziché la cooperazione; in ogni caso non è questa la realtà dei soggetti politici a vocazione maggioritaria, a cominciare dai partiti socialisti europei.
Tutti i partiti socialisti sono già oggi luogo di incontro e di reciproco scambio tra questi diversi riformismi. Deve diventarlo sempre di più anche il PSE, se vuole corrispondere - come deve - al mutamento da tempo in atto nel PPE, ormai trasformato anche formalmente, dopo il congresso di Berlino della scorsa primavera, in casa comune del centrodestra europeo. Si deve riprodurre - alla dimensione del partito europeo- quella innovazione di cultura politica e di piattaforma programmatica realizzata nei singoli partiti nazionali. La dimensione europea è destinata ad assumere peso crescente nel futuro della politica italiana; anche in Europa la competizione democratica per il governo assumerà carattere bipolare, centrodestra (asse PPE) contro centrosinistra (asse PSE).
Va dunque esplicitamente proposto ed affrontato un duplice problema: da un lato, aprire il PSE ad un confronto, ad una collaborazione e ad una vera e propria integrazione con altre forze riformiste di ispirazione cristiana, liberaldemocratica e ambientalista, a partire da quelle che non aderiscono a, o fuoriescono da, un PPE trasformatosi in polo conservatore di centrodestra; dall'altro, costruire un rapporto tra l'Ulivo italiano e il PSE in trasformazione, così che l'Ulivo possa trovare una stabile e coerente collocazione nel bipolarismo europeo e il PSE rafforzarsi come asse dell'alternativa di centrosinistra ai conservatori europei.
Il riformismo italiano di ispirazione socialista può e deve svolgere, in questo senso, un'importante funzione politica, per l'Europa e per l'Italia.
Per l'Europa, se e in quanto è protagonista del consolidamento politico e della strutturazione dell'Ulivo, dove coopera e si integra col riformismo ambientalista, cattolico e azionista-liberaldemocratico, così da portare nel PSE i frutti di una esperienza politica fondata sulla collaborazione con quei riformismi, "diversi" da quello socialista, cui il PSE deve e vuole aprirsi.
Per l'Italia, poiché porta all'Ulivo la forza della tradizione e la straordinaria capacità di innovazione della grande famiglia socialista, così da superare ogni residuo di "anomalia italiana", inserendolo nel sistema politico europeo e favorendo l'acquisizione - da parte dell'Ulivo stesso - di quella capacità di rappresentanza della società italiana ed europea, che altrimenti gli sarebbe preclusa.
Per realizzare questa ambiziosa operazione politica - nell'Ulivo e per l'Ulivo - la sinistra italiana deve dar vita ad un unitario partito del riformismo di ispirazione socialista, ben oltre i confini del post-comunismo, dentro i quali - malgrado la svolta dell'89 e l'ampiezza del cammino percorso nella giusta direzione - ancora si mantengono i DS.
Se la sinistra italiana resta nei confini della sua attuale configurazione partitica (due partiti dell'I.S., entrambi percepiti come ex… ciò che furono nel secolo scorso) essa non è in grado di portare all'Ulivo il contributo che le è proprio e che solo può fare dell'Ulivo un soggetto capace di vincere nella competizione per il governo col centrodestra. E non è in grado neppure di realizzare quell'innovazione di cultura politica, piattaforma programmatica e leadership che ha caratterizzato negli ultimi 10 anni tutti i grandi partiti socialdemocratici d'Europa, rendendoli capaci di vincere (anche per la seconda volta, come nel caso del new labour di Blair) e di governare.
Nessun progetto che abbia questa ambizione può essere perseguito senza far leva sulle straordinarie risorse politiche, culturali e umane - di militanza, di capacità di rappresentanza e di governo - oggi raccolte nei DS. Allo stesso modo, una pretesa di autosufficienza dei DS nel perseguimento di questo progetto lo condanna all'insuccesso: ecco perché è indispensabile che il Congresso dei DS concepisca se stesso, le sue conclusioni - sia sul terreno del programma fondamentale, sia sul terreno delle scelte politico-programmatiche per l'opposizione al governo del centrodestra, sia sul terreno della leadership - come un atto, per quanto decisivo e condizionante, del più ampio processo di costruzione di un unitario partito del riformismo socialista, nell'Ulivo e per l'Ulivo.
Non chiediamo conclusioni "provvisorie". Proponiamo apertamente agli iscritti ai DS di assumere la più definitiva delle decisioni: scegliere col Congresso di essere parte della Costituente di un partito effettivamente nuovo - non più ex qualcosa - secondo la proposta avanzata, dopo la sconfitta del 13 Maggio, da Giuliano Amato.
Il processo costituente di questo nuovo partito - se vuole risultare credibile agli occhi di milioni di elettori che vivono drammaticamente la crisi della sinistra italiana e il suo apparente avvitarsi in divisioni e recriminazioni tutte dominate dal passato - deve avviarsi subito dopo il Congresso dei DS e concludersi entro l'estate del 2002: la chiarezza e la tempestività delle decisioni sono condizioni indispensabili per il successo. In questo senso, noi ribadiamo l'esigenza che il Congresso dei DS sia "ponte" verso il futuro, dell'Ulivo e del partito unitario del riformismo di ispirazione socialista.
Ciò vale anche per la leadership del partito dei DS: la grande legittimazione che deriva al segretario della elezione diretta da parte degli iscritti garantisce - anche a questo proposito - contro ogni forma di provvisorietà e precarietà, ma proprio per questo reclama lo scioglimento - di fronte agli iscritti, in piena trasparenza - di due nodi cruciali:
a) il superamento di ogni ambiguità in tema di direzione "duale" del partito: gli iscritti votano ed eleggono, al Congresso, un segretario-leader, non due;
b) la leadership effettiva del partito unitario del riformismo socialista che dovrà nascere dalla Costituente - di cui il Congresso DS è passaggio essenziale - dovrà essere quella della personalità che si è assunta l'onere di farsi "centro motore" di questo processo costituente: Giuliano Amato.

3. La nuova sinistra e i suoi obiettivi fondamentali.
Tre sono gli obiettivi essenziali ai quali la sinistra nuova deve mirare.
Il primo è l'inclusione. La sinistra non accetta l'esclusione, in tutte le sue forme: l'esclusione che nasce dalla estrema povertà o dalla assenza di ogni tutela della salute nelle zone più arretrate e dimenticate del mondo, come quella che nasce dalla solitudine nelle metropoli più ricche del mondo. La sinistra non si limita ad assistere o ad aiutare gli esclusi; cerca le cause e i meccanismi della esclusione e agisce per ridurli, per rimuoverli. La società che la sinistra vuole è una società che esclude l'esclusione, una società che promuove, organizza e realizza l'inclusione.
Il secondo è la conoscenza. La sinistra combatte l'ignoranza, l'impossibilità di accedere a dati e informazioni, l'incapacità di utilizzarli, l'indisponibilità o la perdita degli strumenti che consentono alle persone di accrescere ed aggiornare continuamente le loro conoscenze. La sinistra considera l'accesso e l'accrescimento della conoscenza da parte di tutti gli uomini e le donne del mondo la base sulla quale ciascuno può edificare il proprio progetto di vita e la condizione che consente loro di padroneggiarlo, di indirizzarlo consapevolmente. La sinistra di oggi vede che si stanno creando le condizioni e insieme le domande per cui la diffusione della conoscenza, la generalizzazione dell'accesso alla conoscenza può avvicinare a uno dei più grandi ideali dell'umanità: l'unificazione della specie nella consapevolezza della sorte comune.
Il terzo è la decisione. L'inclusione senza la conoscenza condannerebbe una parte grande della umanità a lavori poveri, a ruoli sottomessi. L'inclusione e la conoscenza senza la possibilità di prendere parte alle decisioni condannerebbe una parte ancora più grande della umanità alla soggezione e alla sudditanza. A soffrirne, oltre che gli individui in condizioni di svantaggio, sarebbe l'insieme del consorzio umano che vedrebbe disperse e sperperate moltissime delle potenziali risorse disponibili. Il problema della partecipazione alla decisione sta diventando uno dei più grandi e laceranti del nostro tempo. La velocità stessa dei processi di decisione, l'ampiezza degli ambiti territoriali e sociali sui quali si riversano gli effetti delle decisioni, vengono utilizzate per creare poteri sempre più grandi e per sottrarli ad ogni controllo, ad ogni verifica della decisione democratica. Le sedi, le istituzioni, gli ambiti sui quali la democrazia ha edificato e consolidato gli strumenti del proprio intervento si incontrano sempre meno con quelli nei quali i poteri effettivi di oggi si allocano e vengono esercitati. Si alimenta così la sensazione di una inutilità della democrazia che accresce l'assenteismo e accentua la passività e l'esclusione. Si ripropone alla sinistra in termini inediti e, se possibile, ancora più impegnativi che in epoche passate, la questione della democrazia. E' necessaria una nuova grande stagione di immaginazione, sperimentazione, costruzione di una democrazia capace di incontrare i poteri ovunque essi si trovano e capace di articolarsi in modo da confrontarsi con essi, da accompagnarli in ogni loro azione e manifestazione. E' un compito arduo ed esaltante, al quale la sinistra deve cercare di associare la generalità delle persone; è la costruzione difficile e inesauribile della libertà futura, perché dal suo successo dipende se il futuro sarà segnato da più o meno libertà, da una libertà povera o ricca, da una libertà per pochi o per molti. Anzi, per tutti.

4. Il socialismo liberale.
Il socialismo del XXI° secolo è socialismo liberale, è la fusione in un nuovo amalgama dei grandi orientamenti culturali che hanno dominato la sinistra nei due secoli successivi alla Rivoluzione francese: l'orientamento liberale del XIX° e quello socialista del XX°. Due orientamenti che si sono spesso presentati come avversari, per gli strumenti utilizzati al fine di analizzare l'economia e la società; per la distinzione "amico/nemico" da essi proposta; per gli obiettivi suggeriti al movimento di emancipazione. In un'ottica secolare oggi ci appaiono come due fasi necessarie del cammino inarrestabile verso l'eguaglianza. Ma il contrasto di allora, l'estraneità e l'incomprensione successive, il confronto che si è aperto dopo l'89, rendono ancora il rapporto tra socialismo e liberalismo un rapporto difficile. Non da ultimo perché il liberalismo è anche, in versione iper-individualistica, una delle fonti ideologiche della destra: nulla di più facile, per chi non vuole affrontare il problema di un nuovo bilanciamento tra questi due essenziali ingredienti della sinistra, che definire il liberalismo in opposizione di principio rispetto al socialismo.

Nulla di più facile, nulla di più sbagliato. La corrente di sinistra del liberalismo è altrettanto interessata che il socialismo democratico nel definire e promuovere quel quadro di regole, di istituzioni, di interventi pubblici, il quale, senza interferire in modo intollerabile con la libertà di alcuno, offra la possibilità al maggior numero di persone di esercitare una effettiva scelta di piani di vita. Libertà per molti, invece che libertà per pochi. Libertà eguale, insomma. Molto si gioca su quella qualificazione apparentemente innocua: "senza interferire in modo intollerabile con la libertà di alcuno". Questo gioco, in termini generali, dobbiamo lasciarlo ai grandi filosofi contemporanei. In termini particolari, si tratta esattamente delle misure di politica economica e sociale in cui il governo è impegnato ogni giorno: quanto, chi e come tassare; se erogare beni, se erogarli direttamente e a chi; quali vincoli porre nelle scelte attinenti al lavoro e all'impresa; se erogare un reddito di cittadinanza o insistere maggiormente su politiche fondate sul sostegno al lavoro; ed altre decisioni concrete cui faremo riferimento in seguito. Qui ed ora va solo asserito che è giunto il momento in cui un partito profondamente radicato nella cultura del movimento socialista faccia i conti non soltanto con la sua variante comunista -siamo convinti che, all'ingrosso, li ha fatti- ma anche con quell'antipatia spontanea verso il pensiero liberale che deriva da decenni di conflitti e incomprensioni.

4.1 Sinistra tradizionale e sinistra moderna.
Sulle idee ci si conta, perché le idee servono per far politica, per affermare nel concreto la visione di vita buona che condividiamo e che ci rende partito. E' quella visione che caratterizza il preambolo dello Statuto dei DS, in cui ci riconosciamo. Questo ci accomuna -non abbiamo alcuna obiezione sulle finalità ultime che tutte le posizioni presenti nel partito propongono. Ma le idee (il quadro teorico di riferimento, le valutazioni della situazione economico-sociale, i giudizi di opportunità politica) ci separano. Alcuni di noi -in ideologia- ancora condividono la visione classista che albergava nella vecchia socialdemocrazia e nei partiti comunisti; al di là degli orientamenti ideologici, molti di più - in pratica- sono aggrappati ai grandi soggetti sociali del passato, alle organizzazioni che li rappresentano e alle loro rivendicazioni, alle istituzioni concrete che queste hanno contribuito ad affermare. Prevale insomma un atteggiamento conservatore dal punto di vista ideologico, e difensivo da quello delle politiche concrete. Di più, è forte il rischio che la scarsa volontà di affrontare il nuovo, la debole attrezzatura per farlo, le drammatiche difficoltà del partito, portino a delegare a soggetti di massa, a rappresentanti di interessi, compiti politici di cui un partito non dovrebbe mai spogliarsi: in un momento di crisi, questi soggetti sembrano essere l'unica cosa solida rimasta in piedi di quello che fu il potente e glorioso movimento operaio e socialista del nostro paese, il fortino in cui bisogna asserragliarsi.

Questo atteggiamento conservatore e difensivo è profondamente sbagliato. E' sbagliato perché, sul piano delle idee, esso rinuncia ad un evidente, anche se difficile, percorso egemonico, ad un percorso che valga per tutti i cittadini progressisti, per infilare un cul de sac particolaristico e storicamente sconfitto. Come non vedere che, oggi, la grande cultura di sinistra, la cultura egemonica a livello mondiale, è una cultura liberal-socialista? Tutti fanno continui richiami a questa cultura, per poi sostenere che la sinistra deve rifondarsi "a partire dal lavoro". Questa "rifondazione", o rivela una modesta ambizione difensiva, oppure si richiama alla grande visione egemonica che la sinistra condivise nel passato, quella del socialismo e del comunismo marxisti. In questa visione il lavoro è sicuramente centrale, e in un senso teoricamente assai forte. Teoricamente forte, ma sbagliato e politicamente sterile. La "rifondazione" di cui abbiamo bisogno è diversa, è quella che parte dall'individuo e dai suoi piani di vita e che sforza il concetto di libertà il più possibile verso le possibilità effettive dei molti invece di limitarlo al massimo arbitrio dei pochi. Per questo, quando vediamo contrapporre la "nostra" centralità del lavoro alla centralità dell'impresa "degli altri", sentiamo che c'è un arbitrario impoverimento della realtà sociale in questa interpretazione del moderno conflitto sociale, non solo perché ormai l'autoimprenditorialità è un tratto dominante del "lavoro"; non solo perché in Italia famiglia e impresa spesso coincidono (e se l'impresa è "degli altri", allora regaliamo loro anche gli individui e le famiglie che vi si identificano), ma anche perché - nel rivolgere alla politica e allo Stato le sue domande - il lavoratore di oggi vede il conflitto, ma vede bene, anzi meglio, dalla sua postazione nel processo produttivo, anche i molti punti di comune interesse con l'impresa. E' partendo da questa analisi dei mutamenti sociali in atto che noi ci sforziamo da tempo di mettere a fuoco i tratti essenziali del programma politico di un moderno riformismo: coraggiosa riforma federale dello Stato, liberalizzazione di tutti i mercati chiusi ed oligopolistici, sollecitazione di una riforma degli Ordini professionali che impedisca agli insiders di sbarrare l'ingresso agli outsiders, destatalizzazione e sburocratizzazione, sicurezza personale, riduzione della pressione fiscale a fini di sviluppo.
Ed è in questo contesto, non certo in uno marxista e classista, che è possibile accogliere senza forzature le domande di libertà, di autonomia, di differenziazione che una società sempre più ricca e complessa suscita. Nello stesso mondo del lavoro, le sicurezze, le tutele, i "diritti" sono certo crucialmente importanti. Ma non sono più uniformi. Gli esclusi, i deboli, i precari devono essere difesi dalla sinistra. Da chi altrimenti? Ma già sul modo di difenderli nascono problemi: politiche centrate sul lavoro o assistenza, e in quali modi le une o l'altra? E poi non ci sono solo loro: tra i deboli e i forti, tra chi può solo essere licenziato dal padrone e chi ha la forza di licenziarlo frequentemente, si è formato un ventaglio sfrangiato di posizioni lavorative e dunque di domande diverse rivolte al mondo delle regole e delle istituzioni pubbliche.
E non tutte le domande significative - quelle che ciascuno o ciascuna avverte come importanti per la stima di sé e la costruzione del proprio destino - riguardano il mondo del lavoro. La sinistra classista ha sempre avuto difficoltà nell'incorporare nel proprio universo ideologico le domande delle donne, anche quelle che riguardavano il lavoro. Una sinistra liberale, una sinistra che parte dall'individuo, queste difficoltà non le ha proprio: il riconoscimento della differenza è iscritto nel suo codice genetico.

4.2 La condizione sociale.
Questo è tema cruciale, perché corrisponde ad una delle maggiori debolezze della sinistra tradizionale: da cosa è fatta oggi la condizione sociale? Partiamo da alcuni dati. Una recente indagine ha dimostrato che i bambini - nei paesi altamente sviluppati - decidono una quota molto alta dei consumi delle famiglie di appartenenza, a cominciare da quelli connessi all'impiego del tempo libero (vacanze ecc.). E' un dato che sottolinea, oltre all'importanza dei media e della pubblicità, anche l'importanza della famiglia e dei rapporti all'interno della famiglia. Quanti sono i genitori che hanno tempo, cultura e disposizione per instaurare con i figli un rapporto all'altezza di questo problema? E' evidente la devastazione e l'appiattimento sociale che si avrebbe con una popolazione infantile e giovanile fortemente dipendente dai mezzi di comunicazione, alla quale manca uno scambio intenso e continuo con la generazione adulta, a cominciare evidentemente dai genitori. Ma la cultura delle relazioni familiari e - più ampiamente - delle relazioni fra le persone è oggi del tutto assente dall'orizzonte sia dei mezzi di informazione, sia della scuola, sia anche della politica. E questo quando la diffusione, la qualità, la ricchezza e lo spessore delle relazioni sono il terreno decisivo sul quale la politica misura il proprio legame con la realtà e la propria capacità di incidervi.

Guardiamo al tempo libero, sempre meno libero e sempre più organizzato dalla catena di montaggio di cui la televisione e la pubblicità sono passaggi essenziali. E all'importanza che la cultura, la conoscenza, assume sempre di più per padroneggiare non solo il lavoro, ma anche - forse soprattutto - il tempo libero e le relazioni interpersonali, in particolare - come abbiamo appena visto - quelle familiari. Le relazioni stesse sono importantissimo veicolo di conoscenza, di cultura. Quindi a determinare la condizione sociale concorre in maniera determinante la qualità e la quantità delle relazioni. La solitudine, che cresce a causa del prolungamento della vita umana, dell'assottigliarsi delle relazioni e delle responsabilità familiari, dell'urbanesimo e dei più vari meccanismi di esclusione (quando una persona non parla, per giorni, con nessuno, inevitabilmente regredisce a livelli di umanità "elementare" e passiva), è uno dei parametri fondamentali per definire la "condizione sociale" e deve diventare un bersaglio centrale dell'azione di una sinistra moderna.
Tutti questi temi e spunti hanno molto a che fare con il riformismo, con le culture delle quali il riformismo ha bisogno, con la concezione della sinistra, con il rapporto fra "sinistra" e "centro", con l'Ulivo. E' evidente che la visione economicistico-classista, tipica della tradizione delle sinistre socialiste, non consente né di afferrare né di criticare i termini odierni delle condizioni sociali, né di attivare e sostenere efficaci azioni politiche. Sono dunque centrali -non per un "altro" riformismo nell'ambito dell'Ulivo, ma per il riformismo della sinistra di oggi- tanto l'attenzione all'individuo che viene dalla tradizione liberale, quanto l'attenzione alle "persone", alle "comunità" della sociologia e dell'antropologia di ispirazione cristiana e cattolica. Senza questi "ingredienti" non solo non c'è "unità dei riformismi"; non c'è neppure riformismo di sinistra aggiornato e incisivo.

Infine, il rifiuto dell'economicismo investe anche la concezione, lo spessore e la organizzazione della politica. La politica non esiste per "correggere" l'economia e il mercato. Fa anche questo, evidentemente; ma ciò è una conseguenza della ragion d'essere della politica, non è la ragion d'essere stessa. La ragion d'essere della politica è scoprire i bisogni delle persone, ascoltarne le aspirazioni, cercarne e sperimentarne la soddisfazione; aiutare le persone a confrontare e perseguire obiettivi ai quali attribuiscono valore, a costruire fra loro relazioni che rendono ciascuno più informato e consapevole e rendono più efficaci le loro azioni comuni; infine a rendere tra loro coerenti bisogni, aspirazioni, obiettivi individuali secondo un disegno d'insieme eticamente giustificato. E' a questa ragion d'essere, basata sull'individuo e i suoi piani di vita, che conduce spontaneamente il socialismo liberale.

4.3 Il partito riformista e il movimento antiglobalizzazione.
Quando si terranno i congressi di sezione, sarà ancora fortissima l'impressione suscitata dai fatti di Genova, in occasione del G8. Sarà un brutto ricordo l'immagine che il nostro partito ha dato di sé.
Su questa vicenda è ancora necessario riflettere, perché essa rivela non solo una grave incomprensione di che cosa significa essere forza riformista e di governo, ma anche un'incomprensione ancora più grave della logica dei movimenti collettivi, con i quali la sinistra si confronta oggi. Circa la prima incomprensione, è emersa un'incertezza e una contraddizione, tra la sinistra che, quando è al governo, organizza il G8 e la stessa sinistra che, quando è all'opposizione, va a manifestare contro di esso (contro, perché questo è il significato che le manifestazioni avrebbero oggettivamente assunto). Circa la seconda, ci si rifiuta di prendere atto sia della natura estremamente differenziata del movimento "antiglobalizzazione", sia di un sentire molto diffuso di estraneità verso "la politica" così come noi la interpretiamo, un comune sentire del movimento che associa destra e sinistra "politiche" in un unico giudizio negativo. E, nella sinistra, non fa distinzioni tra moderata ed estrema.
Noi dobbiamo accettare - di più, dobbiamo rispettare - questa posizione di estraneità, e meraviglia che chi è passato attraverso il '68 non la fiuti nell'aria: tra l'indignazione morale che muove gran parte di questi ragazzi e ragazze e le risposte "realistiche" che la politica può fornire i ponti esistono, ma sono molto gracili. La sinistra deve rafforzarli. Il modo per farlo non può però essere quello di abbandonare il nostro ruolo di politici riformisti e realisti, per "stare nel movimento". È quello invece di prendere sul serio le ragioni della loro indignazione e aggrapparsi ai pochi obiettivi che alcune parti del movimento esprimono. A partire da questi (norme per la regolazione della circolazione di capitali speculativi, remissione del debito, aumento degli aiuti internazionali) senza cedere di un centimetro rispetto alle obiezioni serie di realismo e di fattibilità che contro alcuni di essi debbono essere mosse, è facile mostrare che destra e sinistra fa differenza.

4.4 Nel nostro paese: l'urgenza di una scelta liberalsocialista.
Siamo in una fase difficile per la sinistra, perché le esigenze della competizione internazionale (che sono poi quelle della crescita dell'economia), le rapide trasformazioni della struttura occupazionale dovute alla terziarizzazione, l'invecchiamento della popolazione e di conseguenza la crescente pressioni sui sistemi sanitari e previdenziali, creano ovunque difficoltà per quegli equilibri istituzionali (quanti riconoscimenti ex post per il welfare di un tempo, da parte di coloro che spesso l'avevano combattuto!) che si erano formati al culmine della crescita fordista. Non è però una situazione senza speranza da un punto di vista elettorale: la ricetta della destra, quando è coerentente liberista, è dura e impopolare. E' la "società di mercato" di cui parla Jospin. Quando mischia elementi di liberismo con ampie dosi di corporativismo e populismo - com'è avvenuto in modo crasso in Italia, ma non si tratta soltanto di un fenomeno italiano- crea aspettative che necessariamente resteranno insoddisfatte: una sinistra rinnovata, un Ulivo stabile e coeso e un'opposizione coerente e competente dovrebbero aprire gli occhi agli italiani su chi hanno mandato al governo.
Circa l'opposizione, e dunque la proposta di governo alternativa che da essa dovrebbe emergere, le linee-guida che proponiamo sono quelle del socialismo liberale. Su questa base siamo anche critici verso l'attività del nostro governo. A nostro avviso, la sinistra e l'Ulivo non hanno saputo perseguire con coerenza politiche che, in una logica di inclusione e di forte solidarietà sociale, fossero però in grado di ampliare la sfera delle libertà che abbiamo descritto più sopra. Non si è trattato di un limite dovuto ad un errore di giacobinismo, di riformismo dall'alto, "senza popolo": il popolo che avrebbe accolto con favore iniziative in quella direzione c'era, eccome. Si è trattato di qualcosa di più grave: è mancata quella svolta nella cultura politica della sinistra che poteva nascere solo da un'aperta battaglia politico-culturale, una battaglia che avesse per oggetto l'innovazione ideologica e programmatica necessaria ad assumere un ruolo di rappresentanza politica nei settori più dinamici e innovativi della società. Esattamente quella svolta che, negli ultimi dieci anni, è stata attuata da gran parte dei partiti socialisti europei -dal New Labour della Terza via alla Spd del Nuovo centro- e che nel Pds-Ds è stata tante volte evocata (conclusioni di D'Alema al congresso del '97, mozione di Veltroni sul socialismo liberale a Torino), ma mai apertamente proposta e fatta oggetto di una impegnativa decisione congressuale.

5. Responsabilità e poteri degli iscritti e dei dirigenti di partito.
Il deludente risultato elettorale dei DS - identico a quello ottenuto nel 1992, subito dopo la nascita del PDS - chiude un ciclo politico: la svolta dell'89 ha sottratto le forze migliori del PCI al crollo del socialismo reale e ha dato luogo alla formazione di un partito che è stato protagonista della transizione ad una democrazia dell'alternanza. La gestione del partito nel decennio non è tuttavia riuscita a far nascere in Italia un partito che non fosse e non venisse percepito come partito ex comunista, ma avesse una cultura politica, un programma e una leadership collettiva tali da consentirgli di svolgere la stessa funzione politica che svolgono in Europa i partiti del PSE. In particolare, non c'è stata rottura di continuità rispetto al governo del partito da parte del "centro" dell'ex PCI, così che il nuovo partito è risultato incapace di cogliere e riassumere in sé la pluralità delle diverse tradizioni della sinistra. Per recuperare il terreno perduto, non basta affermare oggi ciò che - proclamato e praticato quindici anni fa - sarebbe forse stato sufficiente; cioè che il principale partito della sinistra italiana è membro dell'Internazionale Socialista e cofondatore del Partito Socialista Europeo. Che è un partito socialdemocratico. Pesa la continuità di una cultura della "diversità" che non accetta l'approdo del socialismo liberale. E' l'incontro tra socialismo e liberalismo che consente ai grandi partiti del socialismo europeo di ridefinire la propria funzione, i tratti essenziali del proprio programma: il rapporto tra Stato e mercato, l'organizzazione dello stato sociale, le relazioni con i sindacati. Più in generale: il rapporto tra politica, singoli cittadini e società civile.
Molti condividono la tesi che la sinistra non può essere liberale. Se questa è una convinzione diffusa, la sua conseguenza è inevitabile: che in questi anni di governo la sinistra ha fatto una politica che non è la sua; che si è acconciata a portarla avanti, se non per cedimento alle ragioni degli avversari, per senso di responsabilità nazionale o per condizionamenti internazionali.
Questa è una contraddizione grave, che il congresso dei DS deve affrontare di petto, poiché è il motivo principale dell'attuale condizione del partito. Un partito che da un lato vanta, in modo ripetitivo e poco convinto, cinque anni di buon governo; dall'altro, nel profondo, vive la politica condotta in questi anni come una politica non propria, come una serie di oboli pagati ad altri, alla U.E., alla Nato, alla Confindustria, ai partiti alleati. Un partito di sinistra non può vivere a lungo in questa condizione di ambiguità, in cui i suoi leader l'hanno tenuto o perché loro stessi erano confusi e incerti, o perché temevano le conseguenze della verità, dello scontro aperto. Il nodo va dunque sciolto, anche dividendosi, come ci si è divisi senza alcuna spaccatura irreparabile nella S.P.D. quando Schroeder e Lafontaine si sono scontrati.
Ritiene la maggioranza che il partito abbia portato avanti una politica che non è la sua, che non è di sinistra, e che debba al più presto tornare a fare il suo mestiere? Oppure ritiene che la politica di questi anni sia stata - con grandi ambiguità e contraddizioni - il tentativo di percorrere una strada nuova, su cui semmai bisognava camminare con più decisione, coerenza e soprattutto senza sensi di colpa? Anzi, che le si debba dare quella dignità morale e quello spessore culturale che solo l'esplicita assunzione di un quadro ideologico di socialismo liberale le può fornire?

Noi vogliamo che il partito, come tutte le sedi attraverso le quali si esprime l'impegno politico nostro e di tutti quanti con noi sono uniti nell'alleanza per il governo, esaltino la responsabilità e il potere degli aderenti, di tutti coloro che hanno il diritto di prendere parte alla definizione di una decisione data, si tratti di un punto di programma o della scelta di una persona, per qualunque ruolo, dal più delimitato al più impegnativo.
Pensiamo che i difetti oggi esistenti, anche nell'impianto statutario vadano rimossi non concentrando i poteri in modo centralistico o burocratico, ma disciplinando ed equilibrando meglio l'esercizio del potere diffuso e "universale", senza il quale la democrazia si restringe e deperisce. Così, ad esempio, non pensiamo che si debba tornare indietro rispetto alla scelta del segretario da parte della generalità degli iscritti. Può tuttavia essere utile a equilibrare il potere di quel segretario e a rendere trasparente la formazione della maggioranza che ha il compito e la responsabilità di guidare il partito per un determinato periodo, la presentazione e la votazione in congresso della segreteria che affiancherà e coadiuverà il segretario.
In quanto convintissimi assertori della piena laicità della politica, e ben consapevoli non solo dei limiti che la politica ha, ma anche di quelli che è bene ponga a sé stessa, pensiamo si debbano affrontare apertamente questioni che, secondo criteri consuetudinari, si è propensi a non trattare in pubblico e ad affidare a sedi "riservate". Pensiamo che la riforma della politica, l'avvio di una idea nuova di politica, imponga sempre e comunque la massima trasparenza. Siamo perciò convinti che anche le questioni più "delicate" - a cominciare da quelle che riguardano il reperimento e la disponibilità delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle attività politiche - debbano essere affrontate dalla generalità degli aderenti e che anche le scelte in questo campo debbano coinvolgere la loro responsabilità. Una buona politica deve consentire a qualunque cittadino di sapere da dove trae le risorse di cui ha bisogno. Una politica padrona di sé deve essere padrona delle proprie risorse.
La piena laicizzazione della politica, cioè la sua emancipazione da costrizioni ideologiche e da controlli di apparati pone anche il problema dei comportamenti, dello stile dell'azione e della comunicazione da parte degli aderenti e in particolare dei dirigenti, di tutti coloro che hanno cariche e responsabilità pubbliche in nome della sinistra e dell'alleanza alla quale la sinistra partecipa. In passato la "correttezza" che diveniva talvolta "conformismo" era in un certo senso imposta, veniva all'individuo dall'esterno: si trattava di prenderne atto e di applicarla. Oggi non è più così; ed è un bene, è un segno di emancipazione. Ma proprio per questo, le persone - tutte e in misura proporzionale al loro ruolo, alla loro visibilità - sono chiamate a trovare in sé stesse la giusta misura degli atti e delle parole, e non solo nell'esercizio delle funzioni politiche, ma in ogni circostanza. La società nella quale viviamo, con l'attenzione crescente alle persone, con la diffusione, se vogliamo l'invadenza dei mezzi di informazione, rende rilevanti anche messaggi involontari e che scaturiscono da ambiti che con la politica non hanno a che fare. Si è, nella sostanza, giudicati per un modo di essere, di agire, di apparire complessivo; e spesso il giudizio si trasferisce dalle persone - tanto più quanto più sono autorevoli e rappresentative - alla parte politica nella quale si sta. La sobrietà, la coerenza, la disponibilità all'ascolto, la capacità di evitare manifestazioni di sufficienza e di arroganza sono beni che - in genere - i cittadini apprezzano in chi ha funzioni politiche e si attendono in particolare da chi si colloca a sinistra. Senza moralismi e burocratismi dobbiamo sapere che la costruzione di questa immagine sociale dipende dai comportamenti individuali di tutti e chiama dunque in causa la responsabilità di ciascuno. Certo è che una sinistra che coltiva e trasmette questa immagine è più gradita, è sentita più vicina.


ALLEGATO


Le politiche del socialismo liberale.

Da questo quadro di riferimento generale - teorico e ideale - della nostra posizione politica facciamo derivare i contenuti di una vera e propria svolta sul terreno della cultura politica e della piattaforma programmatica del partito. Nei paragrafi che seguono, ne indichiamo alcuni, a nostro avviso emblematici.

1. Lavoratori più forti nel mercato, non solo in azienda.

Chiunque viva del proprio lavoro, e lo svolga continuativamente e prevalentemente per una determinata impresa, ha le stesse esigenze di tutela della propria salute e integrità personale e della propria libertà sindacale e politica, di una ragionevole garanzia di continuità del lavoro e del reddito, nonché di una ragionevole sicurezza contro il rischio di indigenza per malattia, invalidità, disoccupazione. Oggi questa protezione è di fatto negata a milioni di lavoratori: precari, "parasubordinati", irregolari, i quali, insieme ai lavoratori delle imprese di minime dimensioni, portano sulle proprie spalle quasi tutto il peso della flessibilità necessaria per la competitività del nostro sistema nei mercati internazionali. Per altro verso, anche la protezione dei lavoratori subordinati regolari delle imprese di dimensioni medio-grandi incomincia a mostrarsi per molti aspetti inefficace ? in un sistema produttivo caratterizzato da ritmi sempre più intensi di obsolescenza delle tecnologie applicate e degli stessi prodotti ? perché esclusivamente centrata sulla posizione del lavoratore in azienda, ignorando la posizione del lavoratore nel mercato del lavoro. Nessun posto di lavoro, neppure nella grande impresa, può ormai più dirsi "sicuro"; e, nel mercato, chi perde il posto è oggi di fatto completamente abbandonato a se stesso.


La necessaria riforma del sistema di tutela del lavoro deve affrontare la questione nella sua globalità, con l'obbiettivo prioritario di una riunificazione del mondo del lavoro, dell'abbattimento di tutte le barriere che oggi lo dividono in compartimenti stagni, creando una contrapposizione oggettiva di interessi tra chi gode di qualche protezione e chi ne è escluso. A tutti i collaboratori continuativi dell'impresa, quale che sia la forma giuridica della collaborazione, occorre innanzitutto estendere tutti i diritti di libertà, di sicurezza e dignità personale, di tutela piena contro discriminazioni e rappresaglie, garantiti dal vecchio Statuto dei lavoratori del 1970. Ma dello stesso Statuto e della vecchia legislazione del lavoro devono essere riscritte le norme legate a un'organizzazione del lavoro ormai superata: così, ad esempio, quella sulla mobilità in azienda, legata a un concetto di professionalità statico, incompatibile con il ritmo attuale di mutamento dell'organizzazione produttiva; quelle sul tempo di lavoro, ancora strutturate in funzione del modello di produzione fordista, che vedono l'Italia ormai da cinque anni inadempiente rispetto alla direttiva comunitaria n. 104/1993 (entrata in vigore nel 1996); quella sulla protezione dei diritti di riservatezza del lavoratore, risalente a un'epoca in cui non esistevano ancora i computer, i test psicoattitudinali, le tecniche di indagine motivazionale. E va completamente riscritta la normativa relativa alla posizione del lavoratore nel mercato: al vecchio sistema, ormai ridotto in macerie, dei diritti "burocratici", fondati sulle graduatorie del collocamento statale, occorre sostituire un nuovo sistema capace di garantire a tutti i lavoratori, subordinati o autonomi, i tre soli diritti su cui può fondarsi oggi la loro libertà e capacità effettiva di autodeterminazione nel mercato (quella che nel linguaggio della politica del lavoro comunitaria è chiamata oggi "occupabilità"): il diritto all'informazione su tutte le opportunità di lavoro esistenti, il diritto alla formazione specificamente mirata a ciascuna di esse, il diritto all'assistenza per la mobilità geografica eventualmente necessaria per aumentare le possibilità di occupazione. In questo quadro, i lavoratori più deboli dovranno essere aiutati a neutralizzare l'handicap di cui soffrono (di natura sociale, culturale, familiare o psico-fisica) con un sovrappiù di servizi di informazione, formazione mirata e assistenza alla mobilità: una politica attiva volta a garantire pari opportunità effettive per tutti i lavoratori e le lavoratrici nel mercato.
Va inoltre riscritta la parte dello Statuto relativa alla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro: occorre garantire un censimento periodico dei consensi raccolti tra i lavoratori da ciascuna organizzazione o coalizione sindacale, perché sia possibile - in caso di dissenso tra le organizzazioni - attribuire efficacia generale al contratto collettivo stipulato da chi effettivamente rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati. L'intervento legislativo su questo terreno deve tuttavia evitare di dar vita nei luoghi di lavoro a organismi di rappresentanza diversi dalle associazioni sindacali; deve inoltre rispettare e rafforzare autonomia e piena libertà di queste ultime nella determinazione delle modalità di scelta dei propri rappresentanti sindacali aziendali e nella regolazione dei propri rapporti con essi. Anche su questo terreno occorre combattere il formarsi di compartimenti stagni tra lavoratori protetti e non protetti: tutti coloro che collaborano continuativamente con l'impresa devono avere lo stesso diritto di voto, la stessa libertà di aggregarsi sindacalmente come preferiscono e di determinare così la composizione delle rappresentanze sindacali aziendali. Occorre infine studiare le forme per dare voce anche ai disoccupati, ai precari e agli irregolari al tavolo della negoziazione dei contratti collettivi nazionali.

Quanto alla disciplina dei licenziamenti, essa oggi assicura una protezione piena soltanto a metà dei lavoratori potenzialmente interessati; e il numero dei protetti va riducendosi ogni giorno che passa: secondo i dati più recenti, su cinque neo-assunti solo uno oggi gode di un regime di stabilità, mentre agli altri quattro è riservato, in varie forme, un regime di sostanziale precarietà. Deve dunque essere superata la netta separazione tra lavoratori protetti e lavoratori precari, che sempre più caratterizza il mercato del lavoro italiano, e in particolare deve essere superata la distinzione fra "subordinati" e "parasubordinati": occorre per questo istituire una unica "rete di sicurezza" essenziale, garantita a tutti coloro che prestano la propria opera continuativamente e prevalentemente per un'impresa, lasciando che al di sopra di questo standard inderogabile, comune a tutto il mondo del lavoro, siano l'azione sindacale e la contrattazione collettiva e individuale a costruire liberamente modelli diversi di organizzazione e tutela del lavoro, adatti e adattabili alle esigenze di ciascun settore produttivo, di ciascuna azienda o categoria di aziende, ma anche di ciascun lavoratore o categoria di lavoratori. A questi deve essere assicurata, in particolare, la possibilità effettiva di scegliere tra la sicurezza che è data da un rapporto di lavoro stabile (con i costi che questa comporta) e la sicurezza che è data da una maggiore capacità di muoversi nel mercato.

Occorre, in conclusione, che nel mercato del lavoro possano confrontarsi e competere tra loro diversi modelli di impresa e di rapporto tra imprenditori e lavoratori: al lavoratore deve essere data la possibilità effettiva di scegliere, in ciascuna situazione concreta, il tipo di rapporto che meglio corrisponde alle sue caratteristiche personali e professionali di versatilità o di specializzazione, di mobilità o difficoltà di spostamento, di propensione o avversione al rischio. Se questo è l'obbiettivo, alle vecchie tecniche di protezione, consistenti nell'imposizione rigida e inderogabile di un modello standard di rapporto di lavoro, devono affiancarsi e gradualmente sostituirsi tecniche nuove volte ad aumentare le possibilità effettive di scelta di ciascun lavoratore nel mercato e a compensare i difetti di dotazione dei lavoratori più deboli con la fornitura ad essi di servizi aggiuntivi di formazione, informazione e assistenza alla mobilità, capaci di moltiplicare le loro opportunità di lavoro e sottrarli all'emarginazione.


2. Le nuove politiche per un obiettivo antico: la piena occupazione.
L'Italia, all'inizio degli anni '70, era tra i paesi meno terziarizzati. Ora sta recuperando il ritardo. Fra le attività di servizio, quelle ad alta intensità di conoscenza presentano uno straordinario dinamismo: nel 2000, circa il 42% dei servizi acquistati dalle imprese è costituito da servizi avanzati (telecomunicazioni, informatica, intermediazione monetaria e finanziaria, ricerca e sviluppo). Una quota più che doppia rispetto a quella del 1992!! Dov'è che si accentua il divario tra la situazione italiana e quella media dell'U.E.? Nel minore sviluppo dei servizi alle famiglie, per i quali l'Italia è cenerentola in Europa. I carichi familiari in Italia continuano a gravare pressoché esclusivamente sulle donne, a tal punto che il tasso di occupazione femminile si riduce drasticamente al loro aumentare, e in particolare all'aumentare del numero dei figli. In generale, la trasformazione dell'apparato produttivo italiano sembra avvenire lungo linee che hanno a che fare con la produzione, la distribuzione e la gestione della conoscenza, con la creazione e la gestione d'impresa, con lo sviluppo dei servizi sociali e personali, con la diffusione e la gestione delle tecnologie. Anche le analisi statistiche ci confermano quello che abbiamo intuito da tempo: questo processo di modernizzazione tende ad ampliare le disuguaglianze tra i redditi da lavoro, con la crescita del numero dei lavoratori a basso e bassissimo salario: nel 1995 - i dati più recenti - i lavoratori con una retribuzione oraria pari o inferiore al 50% della media nazionale ammontavano al 2,2% degli occupati, e in essi è più forte la componente femminile, che nel nord est raggiungeva ben il 6% dell'occupazione femminile totale. E' tuttavia importante rilevare che il settore dei servizi - nettamente il più dinamico - è caratterizzato da salari mediamente più elevati rispetto al settore industriale.
E' possibile derivare da questi dati qualche indicazione sopra un obiettivo "principe" della piattaforma riformista: la piena occupazione. Se le tendenze sono quelle richiamate, la piena occupazione in Italia è raggiungibile nel medio periodo attraverso due scelte politiche convergenti: più scuola e formazione e più servizi alle famiglie. Due obiettivi a loro volta conseguibili solo attraverso l'ulteriore crescita del protagonismo economico, sociale e civile della donna.
Nella stagione di governo che ci sta alle spalle abbiamo investito molto sulla scuola e sul sistema formativo, facendola oggetto di un disegno organico di riforma. L'obiettivo di questa strategia riformista - che ha provocato reazioni conservatrici, ma ha anche suscitato energie e impegno - era quello di accrescere la "sicurezza" dei cittadini-lavoratori-consumatori di domani; e di mettere questa sicurezza al servizio di nuovi e più elevati livelli di autonomia e libertà individuali.
La scelta strategica, in questo campo, è stata ed è quella dell'autonomia degli istituti scolastici, rispetto alla quale siamo stati avari di risorse economiche (il solito vizio centralistico della sinistra) e di impegno politico diffuso sul territorio, a partire da quello del sistema delle istituzioni locali. Non abbiamo ridisegnato il nostro modello di governo locale alla luce della nuova priorità - diffondere sicurezza e uguaglianza attraverso la formazione, così come facemmo a metà degli anni '70 con i servizi sociali - e abbiamo lasciato autonomia scolastica e obbligo formativo fino a diciotto anni nelle sole mani degli insegnanti più impegnati e degli studenti più consapevoli, entrambi vittime predestinate della burocrazia di quella che resta - con poco meno di un milione di addetti - la struttura con più personale che esista al mondo. Così, quando le risorse finanziarie a disposizione sono un po' aumentate, ci siamo ritrovati a gestirle secondo un modello centralistico e gerarchizzato (addirittura, il "concorsone") che "saltava" e negava in radice l'autonomia. E' dentro questo vuoto creato dal nostro mancato impegno riformista "diffuso" che ha potuto trovare alimento non il consenso dei più abbienti verso la privatizzazione della scuola pubblica o la riproposizione dell'eterno conflitto tra laici e cattolici, ma la tendenza della parte più ricca della popolazione ad "investire privatamente" in formazione e a reclamare agevolazioni fiscali per quell'investimento. La formazione è un bene così prezioso da rendere impossibile che lo Stato sia l'unica agenzia capace di fornirla. Ma una cosa è la costruzione di un complesso sistema formativo che abbia al suo centro la scuola pubblica, fortemente radicata nel territorio, espressione culturale di ciascuna comunità e capace di produrre padronanza dei linguaggi necessari per il "dialogo" globale. Un sistema che si integri con gli ulteriori investimenti di ciascuno sulla sua specifica e personale formazione continua. Altra cosa è la destrutturazione egoistico-corporativo-confessionale che sembra implicita nella proposta di bonus scolastico del centrodestra.
Nell'opporsi a questa proposta - a partire da quella che punta al travolgimento della riforma dei cicli - il centrosinistra dovrà saper colmare questo limite della propria iniziativa riformista di governo: a ben vedere, è la formazione a tenere assieme - in una convincente strategia di governo delle innovazioni sociali, economiche e civili in atto - la questione della "occupabilità", la questione del rafforzamento dei diritti individuali e delle libertà civili, la questione della sicurezza e quella della competitività nell'economia globale. Blair ha trionfato in una campagna elettorale che ha avuto per slogan "più scuole e più ospedali per tutti": qualcuno - alla ricerca di giustificazioni per le proprie sciocchezze sul nuovo corso del Labour britannico - ha sentenziato: "vince perché non parla più di terza via, ma svolta a sinistra". Non è più semplice vedere in questo slogan elettorale la traduzione di un'innovazione della cultura politica e della piattaforma programmatica della sinistra, che determina un nuovo equilibrio tra domanda di libertà e ricerca di sicurezza degli individui? Dunque, l'obiettivo della piena occupazione è perseguibile solo riconoscendo priorità alle politiche per la formazione. Ma l'iniziativa per avere cittadini - e soprattutto cittadine - più informati e meglio formati, e dunque più "forti", deve accompagnarsi a quella per accrescere la domanda di servizi alla famiglia forniti dal mercato, cioè fuori dal gravame imposto alla donna all'interno della famiglia stessa.
E' questa una condizione indispensabile per il conseguimento di due obiettivi, entrambi funzionali alla piena occupazione: in primo luogo, aumentare la partecipazione delle donne alle forze di lavoro (qui è la vera "barriera" che ci fa anomali in Europa), consentendo fra l'altro al sistema produttivo di giovarsi della crescita dei livelli di scolarizzazione che interessano le donne stesse; in secondo luogo, creare le condizioni per l'espansione dell'occupazione in un campo - quello dei servizi alle persone e delle attività di cura, specie per gli anziani - che è notoriamente ad alta intensità di lavoro. Le politiche di governo di questi anni hanno avvertito questa esigenza e hanno cercato di soddisfarla: soprattutto attraverso le politiche fiscali, sia sul versante contributivo (l'IRAP e il radicale mutamento che ne è seguito nel finanziamento del servizio sanitario nazionale), sia sul versante tributario in senso stretto. E tuttavia - specie in occasione dell'ultima Legge Finanziaria, la prima di un effettivo regime di riconquistata "libertà" delle scelte di bilancio - si è manifestata una difficoltà seria a riconoscere la priorità del tema che stiamo affrontando: siamo riusciti a costruire un mix equilibrato tra famiglie e imprese, nella individuazione dei destinatari delle riduzioni di pressione fiscale, ma non abbiamo poi saputo scegliere, tra le famiglie, il sostegno per quelle che si trovano ad affrontare un problema di assistenza e cura ad un minore, ad un anziano. Un problema che cambia la qualità della vita di quella famiglia - e quindi influenza le scelte di vita di ogni suo singolo componente - assai più di altri fattori (ad esempio, il livello assoluto del reddito), cui abbiamo dedicato e dedichiamo maggiore attenzione.


3. Legalità, processo, garanzie.
Al centro della nostra impostazione riformista sta la preoccupazione di coniugare due distinte esigenze: quella dell'efficienza del "servizio pubblico-giustizia" e quella della garanzia dei cittadini coinvolti in vicende giudiziarie.
L'efficienza deve esprimersi sul piano della accessibilità, in condizioni non discriminatorie, per la grande massa dei cittadini: proprio in analogia al concetto di "servizio pubblico" riferito ai servizi di pubblica utilità in genere. L'affermazione comporta il rifiuto di prospettive di efficienza limitate a categorie di utenti più abbienti, e quindi di strumenti "riservati", "privilegiati": prospettive negatrici di "quell'egualitarismo che riconosce gli individui" che rappresenta un connotato essenziale dell'"offerta" democratica dei servizi sociali fondamentali. Più precisamente, si deve in linea di principio combattere la sempre maggiore divaricazione, rispetto alle concrete possibilità di efficiente tutela in giustizia, alla quale si assiste in rapporto alle condizioni economiche dei cittadini. Ma qui, un approccio pragmatico, anzi realistico - anch'esso tipico di un'impostazione seriamente riformista - deve necessariamente distinguere fra giustizia civile e giustizia penale (con uno sguardo anche alla giustizia amministrativa).


3.1 Giustizia civile.
La piaga dei tempi, e (anche in ragione di questi), dei costi complessivi dei processi, frutto dell'attuale inefficiente organizzazione, va combattuta, nell'interesse della collettività degli utenti, non certo privilegiando l'attuale "naturale" deriva verso la scissione fra una giustizia arbitrale, rapida ed autorevole - i costi della quale sono tuttavia alla portata delle parti più abbienti (in particolare, e pur non esclusivamente, le imprese medio-grandi) - ed una giustizia di Stato di defatigante lentezza per tutti "gli altri". Una giustizia intrinsecamente "ingiusta", perché programmaticamente a senso unico: tipicamente punitiva delle attese dei creditori e, in quanto tale, inefficiente sul piano economico. Si deve quindi operare per rafforzare l'efficienza della giustizia "servizio pubblico": e solo quando questo obbiettivo sarà conseguito, l'opzione dei costosi arbitrati perderà il suo attuale significato gravemente discriminatorio.
A questo fine si dovrà operare una riforma della procedura civile basata su tre essenziali capisaldi:
a) l'incentivazione (anche economica) di composizioni "conciliative" delle liti attuali e potenziali.
b) la restrizione degli spazi processuali (e quindi anche temporali) per presentare argomenti e prove.
c) la eliminazione del grado di appello rispetto al merito della controversia, riservando l'impugnazione a motivi di diritto e vizi di legittimità della decisione di primo grado.
Rispetto a queste innovazioni, le manifeste ragioni di efficienza sub specie di speditezza non trascurano quelle essenziali di garanzia di giustizia.


3.2 Giustizia penale.
Anche qui e con ancor maggiore preoccupazione il valore dell'efficienza va inteso, anzitutto, nella prospettiva del "servizio pubblico", evitando ogni prospettiva che conduca - in una materia in cui sono in gioco la libertà e l'onore delle persone - a differenziazioni sostanziali, in concreto, tra cittadini abbienti e non abbienti rispetto all'esercizio del diritto di difesa. D'altra parte, va con pari preoccupazione garantita la tutela delle parti offese dai reati, e l'interesse della collettività all'accertamento delle responsabilità e all'applicazione delle sanzioni previste per illeciti gravemente lesivi di rilevanti interessi generali (come la verità e la trasparenza dei bilanci delle imprese) e beni della vita (come la vita e l'integrità fisica e psichica, contro ogni tipo di violenza alle persone; o come rilevanti interessi patrimoniali, contro ogni tipo di frode od approfittamento).
Rispetto a queste esigenze, si deve anzitutto perseguire una più robusta "normalità" della elaborazione e dell'applicazione della legge penale. Ripugna allo spirito garantista la pratica di previsioni normative eccessivamente discrezionali, volutamente imprecise, espressione di una "rincorsa emergenziale" che dà per persa l'efficacia, appunto, dei principi classici del moderno diritto penale dei paesi più progrediti nella tutela dei diritti del cittadino. E parimenti ripugna il ricorso abituale ai mezzi di "prova" altamente pericolosi sul piano delle garanzie, come quello dei cosiddetti pentiti.
Ciò detto, tuttavia, diciamo con forza che il nostro non è garantismo strumentale ad una giustizia impotente. La nostra ispirazione garantista (sia sotto il profilo della previsione legislativa, sia sotto quello dell'applicazione, a partire dalla fase investigativa) si accompagna alla rivendicazione di un maggiore impegno - economico ed organizzativo- dello Stato nell'assicurare speditezza dei processi (più giudicanti) ed incisività e professionalità delle indagini (più, e sempre più qualificati, inquirenti). Se ad esempio si deve ,come noi crediamo, limitare drasticamente il ricorso ai pentiti, si deve corrispondentemente rafforzare l'attrezzatura investigativa, sia sotto il profilo del numero, sia sotto quello dell'addestramento della Polizia Giudiziaria e dei magistrati requirenti. Una giustizia normale non dev'essere una giustizia debole.
E una giustizia penale normale non deve neppure essere una giustizia che privilegia i più abbienti. Ci riferiamo, qui, all'esigenza di rendere ben più serio l'istituto del gratuito patrocinio, prevedendo e assicurando che esso rappresenti un effettivo servizio civico degli avvocati.


3.3 La giustizia amministrativa.
Noi pensiamo che sia tempo di rivedere - anzi, di abolire - la distinzione tra giustizia ordinaria e giustizia amministrativa. La prima vede i cittadini come portatori di diritti, la seconda come portatori di "interessi legittimi" rispetto ai quali la Pubblica Amministrazione ha una potestà "superiore" di incidenza, connotata di discrezionalità di modi di intervento, sulle situazioni soggettive. Questa distinzione ha fatto il suo tempo. I diritti del cittadino sono e restano diritti eguali, meritevoli di eguale tutela, chiunque sia l'interlocutore. Questa, in estrema sintesi, la posizione di chi non ammette che, ad esempio, la libertà economica, oggetto di un diritto costituzionale, sia soggetta a limitazioni non scaturenti esclusivamente dalla legge, bensì, appunto, dalla "discrezionalità" amministrativa: e che, di conseguenza, anche in sede giurisdizionale la tutela del cittadino sia meno piena - sotto il profilo degli strumenti di difesa e di contraddittorio - nei confronti della Pubblica Amministrazione.


4. La laicità dello Stato.
E' in corso un'offensiva volta ad approfittare delle domande di nuovi diritti individuali che emergono - spesso in una versione estremizzata - dallo sviluppo scientifico, economico, sociale e civile, per imporre una vera e propria regressione del processo di affermazione del principio di laicità dello Stato. Anche se ciò non avviene senza ostacoli e resistenze, il centro destra ha teso a farsi interprete di questa offensiva. E' dunque indispensabile una reazione dell'Ulivo e della sinistra.
Nella prima fase della sua esperienza l'Ulivo ha affrontato il nodo cruciale della laicità dello Stato in modo limitativo e culturalmente povero, ricorrendo in sostanza alla "libertà di coscienza" dei singoli eletti di fronte alle scelte politico-legislative che si venivano proponendo: una formula suggestiva, che tuttavia rinunciava in partenza alla possibile ricerca e alla conseguente individuazione di soluzioni condivise dalla coalizione.
Si tratta di un approccio che va superato, attraverso una ricerca politico-culturale che deve fondarsi su alcuni criteri fondamentali:
1. La libertà di coscienza da valorizzare primariamente non è quella degli eletti, ma quella dei cittadini, rispetto ai quali il diritto posto dallo Stato - a partire da quello penale - si pone come garanzia minima condivisa, sulla base della imprescindibile distinzione tra diritto e morale;
2. Negli ambiti in cui emerge comunque la necessità di vincoli alle soggettività individuali, rispetto alle nuove possibilità aperte dalla scienza, si impone non solo una ricerca di coalizione, ma anche uno sforzo di costruire intese più ampie, poiché si tratta di definire le risposte legislative - possibili in questa fase storica - alle nuove chances di allargamento delle libertà delle persone, aperte dallo sviluppo della scienza e della tecnologia. Risposte che, per definizione, non dovrebbero mai essere interamente affidate a maggioranze limitate e facilmente reversibili;
3. Il necessario riconoscimento di nuovi diritti individuali e di nuove formazioni sociali (convivenze di fatto, unioni diverse dal matrimonio, coppie omosessuali) deve scaturire dallo sforzo creativo di adeguare l'ordinamento ai mutamenti culturali e sociali in atto, combattendo al contempo la pretesa di voler equiparare in modo indifferenziato le nuove realtà a quelle tradizionali .


5. Ulivo e riformismo istituzionale.

5.1- Legge elettorale per la Camera: mantenere questi collegi uninominali maggioritari e prevedere un secondo turno nazionale.
Se l'Ulivo è il patrimonio più prezioso che il centro-sinistra possiede, sia per ragioni di sistema, sia per ragioni di parte, l'opposizione dovrebbe impegnarsi nel mantenere inalterato l'impianto di fondo del sistema elettorale della Camera, col 75% di collegi uninominali maggioritari, che non impedisce certo il raggiungimento di solide maggioranze, come pure, concretamente, gli attuali collegi, in cui la coalizione deve semmai seriamente radicarsi.
Saranno pertanto da respingere con fermezza quelle iniziative dell'attuale maggioranza, la quale, conscia di avere la propria forza nei partiti e la propria debolezza nella coalizione (la Casa della Libertà ha infatti preso sul maggioritario un milione e mezzo di voti in meno rispetto al proporzionale), tenterà di ridurre la quota dei collegi maggioritari - se non di sopprimerla - per adottare sistemi analoghi a quelli delle Regioni o dei Comuni. Sarebbe poi particolarmente deleterio a livello nazionale restaurare quel corruttore sistema delle preferenze in collegi provinciali o pluriprovinciali che, spingendo alla moltiplicazione delle spese elettorali e alla disgregazione interna dei partiti, è stato alla radice di molti dei fenomeni legati a Tangentopoli.
Se si intende completare il sistema elettorale, eliminando alla radice la possibilità di mancanza di maggioranze quantitativamente deboli (inferiori al 55% dei seggi), la soluzione più ragionevole oggi appare quella di inserire un eventuale secondo turno nazionale tra i due candidati-Premier che abbiano avuto più seggi al primo turno, utilizzando come "premio di governabilità" una parte dei seggi oggi destinata al recupero proporzionale.

5.2- Forma di governo: stabilizzare i Governi di legislatura e istituire i nuovi contrappesi.
Il punto debole della situazione attuale non sta nella legge elettorale, quanto piuttosto nella possibilità di modificare il responso degli elettori (già rafforzato in termini politici con l'inserimento dei candidati-Premier sulla scheda) attraverso combinazioni parlamentari in corso di legislatura, senza tornare in modo vincolante alla loro sovrana decisione. Come si è visto nella scorsa legislatura, tali operazioni politiche, pur costituzionalmente legittime, finiscono col dar vita a Governi più deboli, che non possono vantare una derivazione popolare e che quindi sono perenne ostaggio delle oligarchie a cui la loro vita e la loro morte è legata, colpendo di conseguenza alla radice la credibilità del Governo di fronte al Paese.
Se questo è l'obiettivo, appaiono inaccettabili tutti quegli strumenti istituzionali (a cominciare dalla "sfiducia costruttiva") che confermano la possibilità di sottrarsi al mandato popolare e appaiono viceversa da introdurre quegli strumenti, come il potere di scioglimento in capo al Primo Ministro e la "sfiducia distruttiva", che - sulla base del modello neo-parlamentare, di un parlamentarismo che rispetta la centralità degli elettori, elaborato dalla sinistra democratica francese - sono stati proficuamente importati in Comuni, Province e Regioni.
A bilanciamento di queste limpide conseguenze da trarre rispetto all'attuale legislazione elettorale e all'uso volutamente ancora più chiaro in senso maggioritario che ne hanno fatto gli elettori, e per rafforzare l'Ulivo quale opposizione che ambisce a tornare al Governo, non compiacendosi affatto di tale momentanea collocazione, occorre varare nel contempo un robusto Statuto dell'Opposizione: anzitutto il riconoscimento in quanto tale (e del relativo leader) per via di interpretazione e di modifica dei Regolamenti parlamentari che anacronisticamente continuano a considerare solo i singoli Gruppi - e non anche le coalizioni - come effettivi soggetti. In secondo luogo è da perseguire la modifica di quei quorum che appaiono indissolubilmente legati ad una scelta proporzionalistica che di per sé spingeva ad accordi: l'innalzamento di quelli relativi all'elezione dei giudici costituzionali (al contrario di quanto proposto dal centro-destra), dei membri "laici" del Csm, del Presidente della Repubblica. Il consistente abbassamento del quorum relativo al voto sulle commissioni parlamentari di inchiesta e di quello sul referendum abrogativo che, altrimenti, potrebbero essere bloccati da comportamenti ostruzionistici della maggioranza, sotto forma di rifiuto nel primo caso e di invito all'astensionismo nel secondo; norme più rigorose su ineleggibilità, incompatibilità e sulla reiterabilità dei mandati di governo per prevenire e reprimere concentrazioni di potere indebitamente prolungate nel tempo e commistioni di interessi pubblici e privati.
Nel nostro contesto di debolezza dello Stato, di fronte alle ipotesi di trasformazione federale, rispetto ad una cultura politica del centro-destra non ancora del tutto assimilata all'idea che chi vince può governare sin in fondo, ma senza spaccare il Paese e quindi senza forzature unilaterali (come quella già richiamata a proposito dei criteri elettivi dei giudici costituzionali), resta quanto mai valida una figura di Capo dello Stato di garanzia (rimodulandone, oltre al quorum, il collegio elettorale, per metà espressione del parlamento e per metà della dimensione regionale), senza consentirgli intromissioni indebite sull'indirizzo politico (nomina del Governo e scioglimento anticipato) e col rafforzamento dei poteri di controllo, di consiglio e di nomina di garanti e di autorità indipendenti.
Forme presidenzialistiche o semi-presidenzialistiche esporrebbero invece a pericoli di sommare in modo ambiguo poteri di governo e di garanzia, pretese di risolvere direttamente i problemi e mediazioni ambigue con le altre istituzioni, che porterebbero a gravi rischi di paralisi. L'opposizione non deve neanche involontariamente essere subalterna a quelle ipotesi, evitando di appellarsi costantemente al Capo dello Stato, anziché all'opinione pubblica, nei casi in cui si trovi di fronte ad iniziative del Governo in cui vi sia solo il dubbio della prevaricazione istituzionale e non elementi tali da comportare effettivamente un suo intervento. Una prassi attivistica del Capo dello Stato potrebbe essere poi utilizzata per legittimare lo slittamento a forme poco equilibrate di presidenzialismo.

5.3- Completare il federalismo.
Pur con tutti i suoi indubbi limiti, la legge di revisione costituzionale va approvata con grande consenso nel referendum popolare di conferma. Il suo fallimento non comporterebbe certo un'interpretazione evolutiva del testo vigente e risalente al '48, ma piuttosto ulteriori iniziative non meditate da parte dell'attuale maggioranza.
I due principali punti deboli vanno però affrontati con coraggio e sollecitudine dopo il referendum. Si tratta anzitutto della modifica del Senato sia nella composizione (con senatori eletti dai cittadini contestualmente ai rispettivi consigli regionali) sia nei poteri (eliminando il rapporto di fiducia col Governo, mantenendo un ruolo paritario solo per le leggi costituzionali, di revisione costituzionale e per le leggi di principio sulla legislazione concorrente). Si tratta poi di affidare a tale Senato l'elezione di metà dei giudici costituzionali di estrazione parlamentare, mentre l'altra metà resterebbe alla prima Camera.
Infine il tema del federalismo non può non richiamare anche quello sovra-nazionale, il futuro dell'Unione europea: tutte le riflessioni su di essa e sulla mancata globalizzazione della democrazia dovrebbero condurre ad accettare rapidamente un necessario punto fermo, l'elezione popolare diretta del Presidente della Commissione in connessione alle elezioni del parlamento europeo. Si potrebbe dare concreto avvio a questa radicale riforma prevedendo che alle prossime elezioni europee - attraverso un'intesa politica tra PSE e PPE - il nome del rispettivo candidato-Presidente della Commissione compaia sulla scheda, a fianco delle liste dei rispettivi candidati. Solo così si è riportati al vero federatore, il popolo sovrano: altrimenti la costruzione europea sarà costretta in giochi oligarchici più o meno efficaci, ma comunque incomprensibili, e quindi inefficienti.
 
Nota della redazione:
Stampa questa notizia e diffondila, sarà un aiuto concreto verso le persone più deboli e bisognose della solidarietà di tutti noi. E, forse, molti capiranno della differenza enorme che vi è con questa destra di Governo e la società italiana.

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